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Una scuola che non boccia è una scuola marcia

Tutto quello che è comodo è stupido, scrivetelo nella camera dei vostri ragazzi.

E una scuola che non boccia è una scuola marcia”.

Lo psichiatra Paolo Crepet parla dei danni che gli adulti e la scuola fanno ai nostri ragazzi.

“Una scuola che non boccia è una scuola marcia. Un quattro in un’interrogazione è per uno studente un’esperienza mistica. E invece…”. E invece “stiamo costruendo una società in cui gli adulti vogliono il male di coloro che hanno messo al mondo. La vera trasgressione oggi è studiare, fare le cose fatte bene”. E invece? E invece “un professore universitario mi ha appena detto che i libri di più di 400 pagine non devono passare. Vuol dire che abbiamo già detto ai nostri figli che non ce la faranno mai”. Non usa mezzi termini lo psichiatra Paolo Crepet, durante la presentazione del suo ultimo libro intitolato “Il coraggio”, edito da Mondadori, per descrivere la gravissima situazione in cui versano le più giovani generazioni.

Il coraggio è quello che tutti, genitori e insegnanti dovrebbero oggi avere, quello di credere in sé stessi, nei propri figli e nei propri allievi, il coraggio che devono insegnare loro per superare le difficoltà di ogni giorno fuori e dentro la scuola, per affermare le proprie idee e le proprie vocazioni, la propria libertà e autonomia, per non rinunciare ai propri sogni e costruire la giusta dose di autostima.

Perché coraggio significa agire sapendo che la propria fiducia nel successo è molto più forte della paura del fallimento. Un insegnamento importante per tutti coloro che hanno a cuore il proprio ruolo di adulti e il destino degli adulti di domani.

E invece? “Ho scritto questo libro – spiega Crepet - perché sono molto preoccupato.

Seriamente preoccupato di questo mondo, di questa terra. Basta andare indietro di una generazione e mezza: pensare al coraggio delle donne e degli uomini che sono riusciti a tirar su l’Italia e le aziende, quando al mercato nero non c’erano nemmeno le patate. Ora che ci siamo riempiti lo stomaco di tortellini le cose sono cambiate.

A un certo punto si è cominciato a pensare che andava bene così, che è meglio sdraiarsi e vedere sdraiati i figli sul divano, tanto abbiamo tutto il necessario”. E’ cambiata l’educazione. “Una volta c’erano i genitori inflessibili ed erano diffuse le sberle anche quelle preventive, io stesso ne presi una bella collezione, poi s’è fatta largo una melassa, un’educazione liquida basata sul fà come ti pare, sul se lo fai, bene, altrimenti è uguale”. Crepet sa di toccare le corde delle centinaia di persone che affollano il Forum Monzani di Modena, pieno all’inverosimile com’è facile che succeda ogni volta che ad affacciarsi sulla scena pubblica è uno psichiatra. Roba da preoccuparsi sul serio. Succede oggi e tante altre volte con Crepet, succede con Vittorino Andreoli. La collettività sembra ormai psichicamente ammalata, “milioni di persone si alzano al mattino prendendo l’antidepressivo”, racconta Crepet, “e vanno a letto con le benzodazepine”. Sa di toccare le corde e va sul sicuro, lo psichiatra.

Come un pugile, riempe di montanti l’avversario ma l’avversario applaude, quasi voglia sentirsi dire le cose che sa già per poterle metabolizzare e dimenticare. I pazienti non vogliono cambiare, dirà più avanti lo psichiatra, “sono venuto qui da lei solo per sfogarmi, cambiare la mia vita è faticoso, mi dicono i pazienti quasi sempre”. E lui insiste: ma se voi sapete che ho ragione io e cioè che la Costituzione obbliga sì i genitori a mantenere in vita i figli ma non li obbliga certo a regalare tutte quelle cose che ora invece vi apprestate a regalare a Natale, né li obbliga a dare i soldi al figliuolo per andare a Ibiza con gli amici mononeuronici come lui, o per ubbriacarsi di spritz la sera fino a finire al pronto soccorso, né la Costituzione vieta ai genitori di togliere il telefonino e internet quando non c’è reciprocità, e allora perché continuate a fare tutte queste cose? Io faccio una cosa per il ragazzo solo se il ragazzo fa qualcosa per sè.

Altrimenti, cari signori, è come insegnare che nella vita tutto si può pretendere e nulla si deve dare”. Applausi. Il pugile colpisce, il pubblico applaude. “Se i vostri genitori vi hanno insegnato questo, per l’amor di Dio rispondete a questa domanda: come mai avete smesso di farlo con i vostri figli? Siete sul serio contenti di finanziare gli spritz e la marijuana ai vostri figli? Non sappiamo fare altro? Paghiamo perché camminino a quattro zampe, perché arrivino in coma etilico al pronto soccorso? Vogliamo questo? Il coraggio è quello di togliere, non quello di aggiungere”. Togliere, il nuovo verbo di una possibile rivoluzione culturale e antropologica. “Se a un ragazzino dài tutto, gli hai fatto un danno gravissimo, gli hai tolto il desiderio. Come fai a desiderare quello che hai? Come fai a non crescere depresso? La vita va scoperta. I bambini e i ragazzi sono iperprotetti, e invece devono sperimentare il dolore, le cadute, le delusioni, le frustrazioni”.

E invece? E invece “in tutti gli asili abbiamo fatto pavimenti antitrauma. Ma perché un bambino deve rimbalzare? Avete un problema con il bernoccolo? Il bernoccolo non è un problema, è anzi opportuno avere il bernoccolo! Occorre cadere dalla bici da piccoli, altrimenti la prima volta che cadi giù a trent’anni ti ammazzi”. E’ una società che angoscia i ragazzi con le angosce che gli adulti hanno per i problemi dei figli. “Ma lasciateli vivere, questi ragazzi. Li ricattate perché li volete far stare in casa con voi a costo che siano sempre interconnessi. Spingeteli ad andare via, a viaggiare, bisognerebbe vedere gli aeroporti pieni di ragazzi e invece sono pieni di anziani. Spingeteli a studiare all’estero, magari scopriranno che i professori hanno tutti un cognome diverso, che non si eredita. Spingeteli a essere curiosi, a voler morire curiosi, a studiare, la vera trasgressione è studiare”. Ci sono tre milioni di ragazzi con meno di trent’anni che non studiano e non lavorano. “Se pensate che saranno in grado di competere in un mondo globalizzato siete degli illusi. Ci sono migliaia di imprenditori terrorizzati all’idea di lasciare la propria azienda di successo ai propri figli, perché sono sicuri che la distruggeranno in poco tempo”.

Non poteva mancare il riferimento alla scuola. “Il 99 percento dei ragazzi agli esami di maturità sono promossi. Cosa puoi fare per essere bocciato? Qualcuno ha un’idea? Non studiare non basta. Un quattro è un’esperienza mistica. E’ un’esperienza meravigliosa. Una volta presi uno. Uno. Mio padre mi stupì. Uno? Beh, fantastico, hai preso più di zero, ma vedi un po’ di recuperare quell’uno se no per te sarà un Vietnam: ciao, ciao ciao. Certo, non sono diventato un matematico, ma vi assicuro che quell’ammonimento mi servì. Una scuola che non boccia è una scuola marcia. Una scuola che insegna il principio che siamo tutti uguali insegna una grande bugia. Uno vale uno? E’ una sciocchezza. Non siamo tutti uguali. Il merito non si acquisisce in cinque giorni. Dov’è il coraggio nel dire che tutti sanno tutto e parlano di tutto? La vera trasgressione è studiare. Fare le cose fatte bene”.

E invece? E invece “non sopportiamo neppure che i nostri ragazzi possano avere il dolore. È importante la malinconia. La malinconia non è il dramma della vita. Quelli che ridono in continuazione semmai sono dei perfetti imbecilli”. E le regole? Il rispetto delle regole e della buona convivenza? Per Crepet un adolescente che non sia inquieto è molto inquietante. Non è sbagliato del tutto non riuscire a stare nelle regole. Essere dei fuoriclasse tante volte significa stare davvero fuori dalla classe. “Stare fuori dalla classe è un posto scomodo ma molto utile”, precisa Crepet che riprende il caso di Laszlo Birò che negli anni ’40 inventò la penna a sfera osservando dalla finestra i compagni che giocavano a biglie e che non lo facevano mai giocare. Le palle entravano e uscivano dalle pozzanghere lasciando dietro di sé una scia. Solo un talento, un fuoriclasse, un osservatore poteva vedere in quelle immagini visionarie la penna a sfera che avrebbe cambiato l’umanità. Come Steve Jobs, abbandonato dai suoi genitori, poi ritrovatosi in un garage con pochi dollari e un’idea geniale fatta di icone.

“Altro che raccomandazioni e fortuna come sento lamentarsi tanti genitori: quale raccomandazione ebbe Birò e Jobs? La loro molla fu la rivalsa: non mi fate giocare e io qualcosa mi inventerò per farmi valere. Era il 1947 e voi oggi che cosa state facendo ai vostri ragazzi? Guardate ai risultati. Volete la società senza sognatori e senza visionari. Abbiamo ucciso l’ambizione quasi fosse un male. Ma se siamo qui è perché ci sono stati dei visionari. La verità è che tutto quello che è comodo è stupido. Scrivetelo nella camera dei vostri ragazzi e magari anche nella vostra. E dite ai vostri figli che se si iscrivono nell’università più vicina anche questo è stupido. Le cose semplici non sono le cose migliori che abbiamo fatto nella vita. La tua vita, caro ragazzo e cara ragazza, non è una maglietta da 9 euro e novanta che dopo tre lavaggi in lavatrice la puoi buttare. La tua vita è un vestito di Valentino fatto apposta per te.

La tua vita è grande”. Come quella dell’amico Renzo Piano. “Renzo Piano mi ha raccontato che da piccolo saliva sul terrazzo del suo condominio, dove le donne portavano il bucato ad asciugare, per guardare l’infinito, nascosto dagli altri condomini che ostacolavano la vista. E mentre lui da piccolo guardava l’infinito, voi invitate i vostri figli a guardare il mondo in un tablet, idea esplicitata anche alla ministra dell’istruzione in una delle sue tante uscite? Ma io dico, se ha vinto Renzo Piano guardando l’infinito dal terrazzo all’ultimo piano, e voi lo sapete che ha vinto lui, mi spiegate perché mai ai vostri figli fate vedere il mondo dentro quegli aggeggi che vi apprestate a regalare a Natale?”

La verità è che vogliamo male a chi abbiamo messo al mondo. “Già da quando gattonano – conclude Crepet – risolviamo loro tutti i problemi. La verità è che li ricattiamo perché vogliamo che se ne stiano con noi, anche se interconnessi. Insegniamo invece ai nostri ragazzi che vadano in giro”. Non diciamo più ai nostri figli che all’estero c’è brutto tempo e che si mangia male “perché il meglio per i nostri figli non possono essere il meteo.it nè tripadvidsor per le serate al ristorante”

La gentilezza e le buone maniere nel mondo del lavoro

 I dieci punti fondamentali

 

1.Fai lo sforzo di ricordare il nome di chi ti sta davanti e pronuncialo spesso. 

Ricordati che per una persona il suo nome è il suono più importante in qualunque lingua.

2.Arriva puntuale agli appuntamenti. Avere la fama di chi arriva sempre in ritardo, è come avere la fama di uno su cui non si può    contare.     

3.Le presentazioni vanno fatte sempre, anche se ci si ferma solo un attimo a parlare. Devono    essere rapide e precise. Nome e cognome. Non esagerare con i fronzoli, titoli, non dire “il migliore…” “il più bravo…”. E’ fondamentale ricordare perfettamente il nome di chi si presenta altrimenti evita di essere tu a doverlo fare. Mai dire non mi ricordo il suo nome… Se vuoi proprio superarti, come ai vecchi tempi, si presenta l’uomo alla donna, il più giovane al più anziano, se si è seduti l’uomo si alza sempre, mentre la donna quasi mai. E sarebbe bene non dire “piacere”. Togliti gli occhiali da sole se le presentazioni avvengono all’esterno.

4.La stretta di mano deve essere calorosa, non da frattura scomposta ma nemmeno da  mozzarella…e la mano possibilmente non sudaticcia. 

Stai ad ascoltare sinceramente ed attentamente il tuo interlocutore senza distrarti.

5.Durante le riunioni ricordati che 3 persone su 4 ritengono maleducato controllare sms e mail e l’87% pensa che sia scortese rispondere a una telefonata (studio condotto dalla Marshall School of Business della University of Southern California). Infatti dare la precedenza agli stimoli provenienti dall’esterno è percepita come mancanza di rispetto per ciò che avviene all’interno della sala riunioni, mancanza di concentrazione e mancanza di ascolto.

6.Non controllare compulsivamente mail-sms-chiamate, questa nevrosi non ti farà sembrare più importante, ma solo più scortese. 

7.Anche durante i business lunch, l’uso dello smartphone non è molto gradito. In questo caso il 50% degli uomini ritiene accettabile rispondere a una chiamata durante un pranzo di lavoro, contro il 26% delle donne. I professionisti più giovani sono 3 volte più tolleranti di quelli più anziani. Consiglio: prima di infastidire con il tuo comportamento chi ti sta davanti, rifletti. Le buone maniere sconsigliano anche di poggiare sul tavolo smartphone, chiavi, occhiali e borse. 

8.La pausa pranzo.

La Career Builder elenca quattro categorie di “Mangiatori in ufficio”: il Puzzolente, il Rumoroso, lo Sporcaccione e il Rompiscatole. Fai in modo di essere nella quinta “Quello che mangia fuori”

9.Ricordati che Grazie, Scusa e Per favore sono parole con effetti miracolosi, soprattutto se accompagnate da un sorriso.

10.Look.  Fortunatamente non c’è più l’obbligo di quei rigidi tailleur da donna e completi rigorosi da uomo. E’ ammesso ormai in ogni ambiente un look informale purché curato. Alcune cose restano comunque da evitare assolutamente. Per gli uomini mai: i calzini corti, i calzini bianchi e le camicie a maniche corte. Per le donne tutto ciò che è troppo: troppo stretto, troppo corto, troppo scollato, troppo trucco, troppi accessori. Insomma il buon gusto non passa mai di moda. Magari con l’aggiunta di un guizzo eccentrico di piacevole distinzione!

Non dimenticare che Oscar Wilde ha detto:

“Con un abito da sera e una cravatta bianca, chiunque, anche un agente di cambio, può far credere di essere una persona civile.”

e Coco Chanel:

“Se una donna è malvestita si nota l’abito. Se impeccabile si nota la donna.”

 

Gusto e democrazia

Da un po’ di tempo in molti si sono accorti che esiste una comunicazione empatica. Ovvero che non si tratta solo di trasmettere conoscenze e competenze, ma si tratta di armonizzare queste competenze, renderle comprensibili, spiegarle, e farle amare agli altri. Per tutto questo ci vuole passione e condivisione. Le aziende che hanno sempre avuto un comportamento per nulla empatico ma pragmatico oggi si trovano a dover fare i conti con tutta una serie di bisogni che un tempo non erano neppure contemplati.

La colpa, se così si può dire, è dei social network, che hanno proiettato nelle vite individuali bisogni emotivi che ormai fanno parte di un bagaglio esplicito di tutti noi. Qui l’abbiamo detto molte volte, il privato reso pubblico e condiviso ha generato un mood, una corrente collettiva da cui è difficile uscire. Per intenderci, se prima i muri di mattoni grigiastri erano accettati perché rappresentavano la norma, ora che stiamo colorando i muri delle città con disegni brillanti, non vanno più bene a nessuno.

Accadrà che i bisogni emotivi e interiori diventeranno una necessità per tutti. Le città degli anni ‘50 avevano molto cemento e pochi parchi. Erano figlie di un’immigrazione contadina che dal verde, dai campi, fuggiva, perché la ricchezza era una casa, e non l’albero sotto casa. Le cose sono ovviamente cambiate. Le aziende, eccetto il modello utopico di Adriano Olivetti, erano quelle che erano. Non c’era da inventarsi nulla che fosse fuori dal rullo consueto delle catene di montaggio. Aveva importanza solo l’efficienza e la produzione. Poi qualcuno cominciò a capire che anche le fabbriche potevano essere più belle di quelle che erano sempre state. Ma non si è fatto molto in questa direzione. La maggior parte degli edifici che ospitano grandi aziende, hanno strutture degne di un carcere: corridoi infiniti, colori improbabili, poca cura nei dettagli.

Finché è stata chiara la separazione tra privato e lavoro tutto questo ha funzionato. Ma da quando il confine tra i bisogni interiori e quelli pratici si è praticamente annullato il problema non è risolvibile semplicemente. Forse non serve la poesia per dirigere un’azienda, ma è indubbio che nessuno sarà più capace di accontentarsi di ambienti neutri, nessuno vorrà più vivere buona parte del proprio tempo dentro strutture anonime. Non basterà dire: questo è un luogo che serve per lavorare. Perché lavorare oggi è tante cose, e non una sola. Ma soprattutto perché il bombardamento emotivo di questi anni, fatto attraverso un continuo mostrare prodotti con una coerenza estetica, produrrà una rivoluzione sommersa.

Per intenderci. Prima di Apple i computer erano cassoni polverosi e neri. Prima di Ikea, i mobili e gli oggetti destinati a un pubblico più largo e con meno potere di acquisto, erano spesso inguardabili e brutti. Per non parlare dei vestiti: che siano magliette o biancheria intima a basso prezzo, o ancora i franchising dei parrucchieri.

La democratizzazione del gusto è iniziata da almeno vent’anni. Cominciando dalla comunicazione emozionale degli spot pubblicitari e dalla moda, passando per il cinema che ha cambiato linguaggi ed estetiche, e arrivando sul web, attraverso i social network che hanno reso le vite di tutti, altrimenti anonime, più interessanti, persino uniche.

L’ultima rivoluzione, quella dei rapporti personali, dopo aver cambiato i propri luoghi virtuali e privati, cambierà luoghi reali e pubblici. Niente sarà più lo stesso. Neppure le gerarchie aziendali e i rapporti di forza. Nel 68 la fantasia sembrava dovesse andare al potere, ma era solo un bluff, una suggestione culturale ben lontana dalla realtà. Ora la fantasia  è al potere già da qualche tempo, ma è ancora nascosta in stanze che nessuno sta aprendo. Da quelle stanze uscirà presto. E sarà davvero divertente vedere quello che succederà.

(Sette del Corriere della Sera)

Se...

Se pensi in termini di anni pianta il riso.

Se pensi in termini di decenni, pianta alberi.

Se pensi in termini di centinaia di anni insegna alla gente.

Confucio

Il romanticismo tecnologico

Da mesi non si fa altro che sentir parlare di startup. E per startup si intendono progetti, idee vincenti, adatte a menti brillanti. Mentre il suo significato originario si limita a indicare un progetto imprenditoriale, con la capacità di pianificare costi, organizzazione, budget, risorse e quant’altro. L’imprenditore che si dedica a una startup oggi è prima di ogni cosa un inventore di idee. E per di più innovative. E molto spesso le startup riguardano il web da vicino. Il web è la nostra avanguardia, il nostro orizzonte. Se qualcosa accade attorno a noi, accade prima in rete, se c’è da prendere una direzione è meglio prima capire in che modo si muove il web, se pensiamo al futuro, pensiamo che lo troveremo prima su internet e poi sulle nostre strade quotidiane.E naturalmente una startup che si rispetti è innovazione: solo che negli ultimi anni, quando usiamo questa parola non pensiamo soltanto a un processo lungo, che porti a qualcosa di diverso, ma alle idee fulminanti, un lampo, un qualcosa che nasce dal nulla, e diventa concreto perché ha valore in sé. Al punto che i progetti innovativi si tengono segreti e si spera che non vengano copiati o imitati da altri.Siamo arrivati a un post-romanticismo tecnologico. Se prima erano i team a indovinare le esigenze. Oggi sono i singoli, spesso carismatici, capaci di immaginare quel che accadrà. Il processo che poi rende concrete le idee viene soltanto dopo. Ma è il singolo a indicare le linee del futuro. E di esempi in questo senso, soprattutto riguardo a rete internet e tecnologia, ne abbiamo moltissimi.Ma tutti noi siamo figli di una tradizione filosofica che parte da Platone e che vede le idee in una maniera diversa. Per Platone erano le cose del mondo che copiavano le idee, entità perfette e immutabili che rappresentavano l’essenza delle cose.Nel passato sognare il futuro facendolo avvicinare alla perfezione di una società ideale ha generato utopie e totalitarismi. Ma ora sono le idee a cambiare il mondo, non è il mondo che va cambiato per adeguarsi a modelli a cui fare riferimento.È facile capirlo rendendosi conto che oggi le cose esistono non tanto perché erano necessarie, e neppure perché se ne sentiva il bisogno, ma solo perché qualcuno le ha pensate e messe in pratica. Il web stesso è stato in origine un’invenzione scollata da una necessità. Gli oggetti che utilizziamo ogni giorno e che ci sembrano indispensabili non riflettevano un bisogno reale. Gli sms, per esempio, sembravano un’invenzione perdente. Un cellulare su cui scrivere? E attraverso una tastiera numerica? Non avrebbe mai preso piede, avevano detto gli esperti. Oggi si comunica quasi solo attraverso questo tipo di messaggistica.Le startup sono una nuova maniera di pensare l’innovazione non più come un cammino necessario (invento l’aereo, o la macchina per viaggiare più velocemente, il telefono per comunicare meglio al di là delle distanze fisiche) ma come una romantica intuizione di bisogni che non ci sono ancora e che ci saranno un giorno. E oggi gli imprenditori che guardano al futuro hanno un sistema di pensiero più simile a quello dei poeti, e molto lontano da chi si occupa di strategie industriali. E in questo Adriano Olivetti aveva capito tutto già 60 anni fa.Intercettare i sogni che verranno è la scommessa più difficile. Mai come in questi anni quei sogni modellano la materia delle nostre realtà, dei nostri desideri, di quello che ci aspetta. Forse ora sappiamo bene cosa significhi vivere in un’epoca senza ideologie. Abbiamo sempre pensato che un mondo privo di ideali era un mondo senza passioni. Ora sappiamo che un mondo di passioni genera un mondo di ideali. E in un certo la senso la fantasia, con qualche decennio di ritardo rispetto al 68, è arrivata finalmente al potere.

Rocco Cotroneo Sette

Abbiamo miniaturizzato anche il pensiero

Non so dire se siamo davvero consapevoli di quello che sta accadendo in questi ultimissimi anni: come è cambiata l’idea della privacy, come è diverso ormai il nostro modo di vedere il mondo, e anche il nostro modo di leggere, di scrivere, di pensare  l’esistenza. Stiamo davvero sottovalutando quello che è successo in questi anni. E probabilmente ci accorgeremo di quello che sta avvenendo da un giorno all’altro, all’improvviso.

Magari uscirà un saggio di uno studioso brillante e attento che ci farà capire, con metodo e attenzione, quanto le nostre menti si sono modificate, quanto i nostri ragionamenti sono diventati funzionali a dei layout predisposti altrove. Un saggio che racconti che la rivoluzione non è internet, il web 2.0 o i social network, ma è il mutare della mente umana, l’abbassamento delle soglie di attenzione, l’immaginazione narrativa e visiva, dopo l’avvento di questi nuovi strumenti, tecnologie e linguaggi.

Il problema non è osservare come il mondo cambia. Ma è osservare come stiamo cambiando noi.

Ad esempio, non siamo più capaci di leggere testi lunghi. La soglia di attenzione è minima, leggere a lungo stanca, non ci si riesce a concentrare con un testo che argomenta troppo. Le cose vanno molto meglio se ci si trova di fronte a un testo breve efficace e poco elaborato.

Questo vizio viene dal web: che non permette una lettura approfondita dei testi. E viene dai social network che chiedono sintesi estreme, alle volte quasi impossibili.

Anche la fotografia è diventata breve. Breve nell’esecuzione, breve nel suo ruolo nel mondo. Siamo passati dalla fotografia alla phonografia. Sono quegli scatti che si fanno con gli smartphone e i telefoni cellulari. Cose rapide, di buona qualità, ma non certo eccelsa, che servono a documentare in fretta, eventi, storie, situazioni, ma anche le emozioni di tutti i giorni.

Si scrive in breve adesso, e si pensa in breve.

La brevità è più importante della consistenza delle parole che usiamo, più importante del tempo, del tempo di cui abbiamo bisogno per farle sedimentare.

Diamo spazio alla velocità, alla battuta rapida, cercando di cavalcare un’attualità che non sa che farsene dell’attualità, finisce che dimentichiamo il pensiero argomentato, dimentichiamo persino cosa significa parlare.

Comunicando solo con i social network, esprimendoci attraverso chat, o messaggi, o altre applicazioni che permettono un dialogo scritto ma rapido, finiamo per non trovare più le regole elementari che ci servono per comunicare. E le regole elementari sono quelle del ragionamento filosofico: del dialogo platonico come del sillogismo aristotelico.

Non c’è più niente di tutto questo.

Su twitter, per intenderci, un sillogismo non ci starebbe mai. Superebbe i 140 caratteri richiesti per un tweet. Per non parlare poi dei dialoghi, dove il ragionamento corre lento come un vecchio treno che non ha fretta di arrivare a destinazione.

Trionfa invece l’aforisma, la battuta fulminante, l’essere il più brillanti possibile. E non è esibizionismo, è il tentativo con un solo lampo, di essere notati in un universo di stelle e costellazioni.

Talvolta è soltanto polvere di stelle, ma basta a porsi il problema se la sintesi del web e dei nuovi mezzi di comunicazione non conduca in poco tempo a una vera e propria incapacità di analisi delle cose e di argomentazione dei problemi.

Forse il futuro sarà fatto di bagliori piuttosto che di luci che ti guidano per strade lunghe e tortuose. Ma i bagliori ingannano, e ci si perde facilmente.

Umore

Con la parola umore di solito si indica l’indole di una persona. O una sua disposizione d’animo: buonumore, malumore.

Umore deriva dal latino “humere”, essere umido e infatti, in origine, l’umore  è sostanza liquida che stilla a piccole gocce. Si fa risalire alla scuola ippocratica (IV sec.a.C) l’idea che quattro fondamenti fluidi organici (tra cui l’umor nero) regolino l’organismo dell’uomo, la cui salute dipende dal loro equilibrio.

“La felicità e l’infelicità degli uomini dipende tanto dalla loro buona sorte quanto dal loro umore”, diceva La Rochefoucauld.

Ricordarsi che da umore deriva umorismo. (Opera di Gianluigi Colin)

Aldo Grasso IoDonna

Oggi il cretino è specializzato

Sono sempre più numerosi i blogger che decidono di non permettere più i commenti in coda ai loro post.

Ormai il popolo dei commentatori del web stanno diventando irritanti, sono incattiviti e ritengono che la violenza verbale, l’opinione franca senza mediazione abbia un valore di per sé, in quanto genuina, arcaica, eppure tanto autentica.

Come fai a censurare un’opinione di un buon cittadino che si toglie sassolini e macigni dalle scarpe con quel meraviglioso strumento di democrazia diretta come il web? Non è possibile.

Le élites non vogliono commenti, si chiudono dentro i loro algidi consigli di amministrazione, nelle loro austere sale riunioni, nelle loro case editrici dove i volumi pubblicati sono in bell’ordine come fossero reliquie, nei loro giornali bugiardi, naturalmente, dove il rumore sommesso della verità e della folla verace arriva attutito, lontano, schermato. Il web permette la bestemmia, il turpiloquio, il lazzo, l’ironia pesante, la comicità greve. Non guarda in faccia nessuno: è una zona franca dove ognuno può impallinare chiunque, abbattere bersagli e obbiettivi sgraditi, utilizzando mezzi che non hanno necessariamente a che fare con la verità, con la correttezza, con la capacità di documentarsi, con l’equilibrio del giudizio, con l’etica.

Nella sua prolusione durante il conferimento di una laurea honoris causa all’Università di Torino, Umberto Eco ha detto che i commentatori del web, e per essere precisi le scorie del web 2.0, quello che permette una continua interazione tra chi posta chi commenta, sono degli imbecilli. Quegli stessi imbecilli che un tempo bofonchiavano nei bar sport e venivano zittiti il più possibile, e che oggi nessuno può zittire, perché il web non ha filtri, non ha censura, e puoi bestemmiare tutte le religioni monoteiste che nessuno ci fa caso, ma se poi posti un seno nudo per spiegare come cercare eventuali noduli ti bloccano l’account.

Apriti cielo, dopo le affermazioni di Eco è stato un diluvio di improperi, come si avesse di fronte un vecchio reazionario pronto alla marcia su Roma, un bieco antidemocratico, un uomo che vorrebbe far tacere gli spiriti liberi. E che importa se si può essere al tempo stesso liberi e imbecilli. E che anzi, la libertà può talvolta agevolare, essere terreno di coltura di certe imbecillità, perché nella sua bellezza è in grado stimolare al tempo stesso le migliori intelligenze e le peggiori idiozie.

È tutta gente che finalmente può parlare senza sapere quel che dice, senza rispondere di quello che dichiara, che può avvalersi del diritto all’anonimato, che scambia lo sberleffo di Cecco Angiolieri con l’insulto dei miserabili. Ogni volta che si verifica qualcosa di tragico, ogni volta che c’è bisogno di tutto il sapere, la saggezza, il buon senso che la libertà ci può concedere, assieme ai libri, alla cultura, alla capacità di discernere, alle grandi possibilità che il web permette, ai classici che si possono scaricare a gratis, o pagandoli meno di un euro per merito di internet, insomma con tutte queste cose a disposizione, il popolo del web, i missionari del social network, la coscienza civile della banda larga, gli opinionisti del mobile, riescono a trasformare i sistemi operativi, i loro computer di design, i loro smartphone argentati e cromati in strumenti per caverne, clave orrende, pietre adatte a essere scagliate per prime, cadute massi indecorose su soggetti inermi e incapaci di difendersi. Parlo degli imbecilli come quelli che hanno commentato per troppi giorni lo stupro della ragazzina a Roma. Un web pieno di: «ma non era troppo nuda?», «ma cosa ci faceva una ragazzina in giro a mezzanotte?». E mi fermo qui, perché è un’indecenza insopportabile.

La cretineria del web non è più un’infausta conseguenza della meraviglia che la comunicazione moderna può darci, ma è una componente fondamentale. Carlo Maria Cipolla, grandissimo storico e saggista, diceva che la stupidità è nella stessa percentuale ovunque, anche tra i premi Nobel. Ma l’idiozia non è più discreta e limitata come un tempo. Ora si fa leggere e si mostra. Il grande Ennio Flaiano scriveva: «oggi il cretino è specializzato». Certo, nel web 2.0.

Rocco Cotroneo Corriere della Sera 

Il vento freddo della creatività

Ho letto un paio di articoli dove ci si chiede se gli smartphone possono spegnere la creatività delle persone. Soprattutto quando se ne fa un uso eccessivo. In realtà si parte dal presupposto che la creatività sia qualcosa che appartiene a tutti, persino una dote innata. Quasi un diritto. E questa ossessione per la creatività ha generato come un vento freddo che poggia sulle terre calde del web. Nessuno può più sfuggire all’obbligo creativo, al dovere di raccontare. E chi non ha una storia, un qualcosa da dire, un qualcosa che piaccia è meglio che se la trovi al più presto. Perché la povertà creativa è diventato un disvalore, un segno intollerabile del vivere contemporaneo, del comunicare sul web e sui social.

Dovremo fare i conti con la dittatura della creatività. Schiavi di un nuovo glamour, diventiamo tutti potenziali narratori cinematografici, autori di romanzi e poesie, compositori di musica, cesellatori di buone storie, in grado di raccontare, di vedere sempre un plot dove spesso non esiste, di saper trovare gli intrecci e le grandezze ovunque si nascondano.

La dittatura della creatività è un problema molto serio. Non esistono più esistenze che non ambiscano a qualcosa che le evolva, le riscatti dalla quotidianità. Non esistono più luoghi normali, come tanti, paesaggi simili tra loro, nonni, nonne e zii all’incirca uguali per tutti. Non ci sono più lettere di famiglia che sono soltanto lettere, e che si conservano per affetto senza neppure andarle a rileggere. Ormai non ci sono racconti privati, storie tramandate, persino piccole leggende, che non diventino cose per gli altri, che non siano esportabili nel senso tecnologico del termine: ovvero cambiandogli il formato in modo che siano leggibili in un altrove indistinto. Persino i filmini della recita dei figli, abilmente manipolati, possono diventare ritratto, affresco, vicenda privata che ha qualcosa di collettivo, microstoria rivelatrice.

È come un vento che sta mettendo una generazione di fronte alla frustrazione di non essere abbastanza narrativa, di non essere del tutto creativa. Le storie corrono per il mondo e bisogna afferrarle, capirle, ripensarle: quelle di ogni giorno come quelle antiche, che possono diventare un libro, un racconto lungo, un documentario.

La dimensione privata del ricordo è diventata un affare emotivo, narcisistico, affettivo, esibizionista. Ogni gesto della propria vita, ogni pensiero, ogni fotografia, ogni video è vissuto non per essere condiviso, ma per diventare un mosaico narrativo, uno storytelling di esistenze semplici, normali, che non sono più capaci di restare in quella normalità, in quel privato che è sempre stato di tutti. Si sono rovesciati i propri cassetti dentro il web, per mostrarsi nudi, indifesi, fragili di fronte ad altri nudi, indifesi e fragili. E non si riesce più a ritrovare una dimensione privata dell’esistenza.

Non tutto serve a diventare storia, non tutto si può mostrare come fosse un patrimonio collettivo. Non c’è bisogno di costellare il proprio tempo quotidiano di note continue che aggiungono, mostrano, spiegano, narrano. E questa dittatura della creatività è diventata una disperazione, una sorta di antifrasi concettuale: diamo un significato opposto a tutto quello che è di fronte a noi, come un tic nervoso. Obblighiamo le nuove generazioni a pensarsi creative ma solo a parole. Perché poi quando cercano di esserlo davvero vengono dissuase. Abbiamo trasformato l’arte, la letteratura, il cinema, la musica e tutte le espressioni dell’ingegno in qualcosa di necessario e al tempo stesso di non realizzabile se non in una forma ripetitiva e banale. Abbiamo legato la creatività al successo dei like, che finiscono per modificare, in corsa, la qualità delle opere, delle storie, attraverso un sondaggio continuo, un costante aggiustamento – spesso verso il basso – delle proprie intenzioni e volontà.

La creatività obbligatoria è come un vento freddo, sottile e tagliente, ghiaccia il paesaggio e paralizza le coscienze. Mescolando plauso e indifferenza come fossero la stessa cosa.

Roberto Cotroneo

Ascoltare non è condividere

In tutte le culture millenarie, e soprattutto nella maggior parte delle religioni, l’ascolto è un elemento fondante. L’ascolto è saggezza, l’ascolto è comprensione, alle volte è assoluzione o condanna, ma è sempre un punto di condivisione tra due persone singole, o tra un singolo e la collettività. Si ascoltano i figli, le persone che si amano, si ascoltano le comunità, i cittadini. Si chiede, si valuta, si decide dopo aver ascoltato, e non soltanto le ragioni o delle tesi ma anche qualcosa che viene prima di tutto questo: l’essenza del vivere.

Mettersi in ascolto è mettersi in cammino, regalare un luogo dove rifugiarsi, trovare conforto: ascoltano i confessori, gli psicoanalisti, i saggi.

Ascoltare non è necessariamente condividere, non è un modo per farsi approvare, per avere successo, per vincere con le proprie ragioni. Nell’ascolto non si vince e non si perde, non è un combattimento, non è consenso o dissenso, non è adesione o indifferenza. Nell’ascolto e nel farsi ascoltare il voler avere ragione, il voler colpire, impressionare, risultare popolari agli altri, serve a poco. Perché mettersi in ascolto è percorrere una strada di solitudine e di diversità che ci può isolare, renderci eccentrici.

L’ascolto è un karma, in un certo senso; parola sanscrita delle Upaniṣad vediche che ormai è utilizzata nel linguaggio corrente per indicare all’incirca il destino, la predisposizione a qualcosa. Il karma è un agire nel mondo che porta al ciclo di morte e di rinascita del saṃsāra. Da come si agisce, come sanno ormai in molti, si avranno delle conseguenze, e il ciclo di morte e rinascita non è uguale per tutti, dipende da come si agisce, dalla capacità di sentire e di essere nel mondo; dal modo di ascoltarlo, in un certo senso, se intendiamo l’ascolto una delle modalità dell’agire, una modalità più evoluta.

Ma la modernità alle volte è fatalmente invasiva. Semplificare è molto bello, quando si riescono a spiegare concetti complessi con linearità, rendendoli fruibili a molti. Ma banalizzare non è semplificare, e soprattutto ci sono forme di banalizzazione pericolose. Da poco tempo esiste un nuovo social network, si chiama: Maadly. Non sarebbe una notizia se non avesse un aspetto particolare. Non mette in comunicazione persone che si conoscono, o addirittura amici, ma soltanto ed esclusivamente non conoscenti. Questi sconosciuti della rete leggono i tuoi post e i tuoi contenuti e possono mettere un “Like” o un “Dislike”. A ogni like sale il karma dell’utente (proprio così, è utilizzato questo concetto). A ogni dislike il karma scende.

Invenzione carina e persino originale quella di farsi giudicare da una massa di sconosciuti che possono determinare il tuo Karma. Se hai successo salirà e tu non ti reincarnerai in un insetto o in un verme, ma in un altro essere umano. Se invece non riesci a essere popolare la ruota del saṃsāra girerà malissimo per te.

È difficile prevedere il successo, tra i ragazzi soprattutto, di questa applicazione che è già scaricabile sui dispositivi mobili. La banalizzazione del Karma non sarebbe un grande problema. Da anni lo fanno le dottrine New Age e ci siamo abituati. La cosa invece piuttosto grave è che si mette assieme il piacere, il successo, l’essere approvati, come fosse un percorso spirituale e di crescita. Il successo, per intenderci, l’esser popolari, l’avere molti like non è un cammino spirituale, non dovrebbe essere considerato un punto di arrivo. L’ambizione non è qualcosa di auspicabile in sé. La ragione e l’approvazione del mondo non sono valori, anzi alle volte sono dei disvalori.

Bertold Brecht scriveva: «ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati». Insegnare il coraggio di raccogliere molti dislike, farsi ascoltare per quello che si è veramente, e non per riscuotere assenso e successo è il modo migliore per prendersi cura del proprio karma.

Rocco Cotroneo - Corriere della Sera

Mi do il permesso

"Mi do il permesso di non essere una vittima
Mi do il permesso di separarmi da persone che mi trattano bruscamente, con violenza, che mi ignorano, che mi negano un saluto, un bacio, un abbraccio…

Da questo preciso momento le persone brusche o violente sono fuori dalla mia vita.

Mi do il permesso di non costringermi ad essere “l’anima della festa”, la persona che mette entusiasmo in tutto o quella sempre disponibile al dialogo per risolvere conflitti quando gli altri nemmeno ci provano.

Mi do il permesso di non intrattenere ed incoraggiare gli altri a costo di stancarmi io: non sono nato per spingerli ad essere sempre al mio fianco.

La mia esistenza, il mio essere è già prezioso.
Se vogliono stare al mio fianco devono imparare a valorizzarmi.

Mi do il permesso di lasciar svanire le paure che mi hanno inculcato da bambino. Il mondo non è soltanto ostilità, inganno o aggressione. Ci sono anche tanta bellezza e gioia inesplorata.

Mi do il permesso di non stancarmi nel tentativo di essere perfetto. Non sono nato per essere la vittima di nessuno. Non sono perfetto, nessuno è perfetto e mi permetto di rifiutare gli schemi altrui: un uomo senza difetti, estremamente impeccabile ovvero disumano.

Mi permetto di non vivere nell’attesa di una telefonata, di una parola gentile o di un gesto di considerazione. Mi affermo come persona che non dipende dalla sofferenza. Non aspetto rinchiuso in casa e non dipendo da altre persone. Sono io stesso a valorizzarmi, mi accetto e mi apprezzo.

Mi permetto di non voler sapere tutto, per non essere sempre presente durante il giorno. Non ho bisogno di molte informazioni, di programmi per il pc, di film al cinema, di giornali, di musica.

Mi do il permesso di essere immune alle lodi o agli elogi smisurati: le persone che fanno troppi complimenti finiscono per sembrare opprimenti. Mi permetto di vivere con leggerezza, senza accuse o richieste eccessive. Non fa per me.

Mi do il permesso più importante di tutti, quello di essere autentico.

Non mi sforzo di compiacere gli altri. È semplice e liberatorio abituarsi a dire di no ogni tanto.

Non mi voglio giustificare: se sono felice, lo sono, se non sono felice, non lo sono. Se un giorno del calendario è considerato come quello in cui sentirsi obbligatoriamente felici, io mi sentirò esattamente come mi sentirò.

Mi permetto di sentirmi bene con me stesso e non come vogliono le usanze o quelli che mi stanno attorno: quello che è “normale” o “anormale” nei mie stati emotivi sarò io a deciderlo"

JOAQUÍN ARGENTE

Non rinunciare mai alla felicità

Discorso di Papa Francesco al Sinodo della Famiglia
 
"Puoi aver difetti, essere ansioso e vivere qualche volta irritato, ma non dimenticate che la tua vita è la più grande azienda al mondo. 
Solo tu puoi impedirle che vada in declino. In molti ti apprezzano, ti ammirano e ti amano. 
Mi piacerebbe che ricordassi che essere felice, non è avere un cielo senza tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni.
Essere felici è trovare forza nel perdono, speranza nelle battaglie, sicurezza sul palcoscenico della paura, amore nei disaccordi.
Essere felici non è solo apprezzare il sorriso, ma anche riflettere sulla tristezza. Non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti. Non è solo sentirsi allegri con gli applausi, ma essere allegri nell'anonimato.        
Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e periodi di crisi. Essere felici non è una fatalità del destino, ma una conquista per coloro che sono in grado viaggiare dentro il proprio essere.
Essere felici è smettere di sentirsi vittima dei problemi e diventare attore della propria storia. È attraversare deserti fuori di sé, ma essere in grado di trovare un'oasi nei recessi della nostra anima.
È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita. Essere felici non è avere paura dei propri sentimenti.
È saper parlare di sé.
È aver coraggio per ascoltare un "No".
È sentirsi sicuri nel ricevere una critica, anche se ingiusta.
È baciare i figli, coccolare i genitori, vivere momenti poetici con gli amici, anche se ci feriscono.
Essere felici è lasciar vivere la creatura che vive in ognuno di noi, libera, gioiosa e semplice.
È aver la maturità per poter dire: “Mi sono sbagliato”.
È avere il coraggio di dire: “Perdonami”.
È avere la sensibilità per esprimere: “Ho bisogno di te”.
È avere la capacità di dire: “Ti amo”.
Che la tua vita diventi un giardino di opportunità per essere felice ...
Che nelle tue primavere sii amante della gioia.
Che nei tuoi inverni sii amico della saggezza.
E che quando sbagli strada, inizi tutto daccapo.
Poiché così sarai più appassionato per la vita.
E scoprirai che essere felice non è avere una vita perfetta. Ma usare le lacrime per irrigare la tolleranza.
Utilizzare le perdite per affinare la pazienza.
Utilizzare gli errori per scolpire la serenità.
Utilizzare il dolore per lapidare il piacere.
Utilizzare gli ostacoli per aprire le finestre dell'intelligenza.
Non mollare mai ....
Non rinunciare mai alle persone che ami.
Non rinunciare mai alla felicità, poiché la vita è uno spettacolo incredibile!"

NUOVO LIBRO di Claudio Maffei

IL FUTURO NON SI PREVEDE,
LO SI INVENTA


Il volume è un invito a godere del viaggio sulla strada della vita, di quel percorso che, se ben incanalato verso un obiettivo preciso, spinge a creare, a costruire, a inventare. E, ciò che più conta, non è così importante tagliare il traguardo, quanto apprezzare ogni momento, ogni passo del viaggio che ha portato fino a quel punto. È questo lo spirito con cui l'autore - uno degli  esperti più noti, a livello nazionale nel settore della comunicazione - si è messo a collezionare sessantasei spunti di riflessione. Come afferma il titolo del libro, il futuro non è qualcosa da prevedere. Il futuro è qualcosa da costruire giorno per giorno, pezzo per pezzo, godendosi il viaggio come sulla Route 66, quella stessa Mother Road che gli americani, con il medesimo animo dei pionieri, percorrevano con entusiasmo, con fiducia, con spirito di avventura, alla ricerca della propria realizzazione. Una strada, insomma, che porti al futuro, e che ci permetta di arrivare alla meta in piena forma e felici di aver compiuto quel lungo viaggio.

                                                                   http://shop.claudiomaffei.it/

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